Lo scheletro impossibile di James P. Hogan

Lo scheletro impossibile di James P. Hogan
Lo scheletro impossibile di James P. Hogan

Il romanzo “Lo scheletro impossibile” (“Inherit the Stars”) di James P. Hogan è stato pubblicato per la prima volta nel 1977. È il primo libro del ciclo dei Giganti. Ha vinto il Seiun Award giapponese come miglior romanzo straniero di fantascienza. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel n. 739 di “Urania” e all’interno del n. 74 di “Millemondi” “Le stelle dei giganti” nella traduzione di Beata Della Frattina. Quest’ultima edizione è disponibile anche in formato Kindle su Amazon Italia e Amazon UK e in formato ePub su IBS.

Lo scheletro di un essere umano in una tuta spaziale viene scoperto sulla Luna. Nessun membro del personale che vi lavora è disperso e la tuta non è di nessuno dei tipi utilizzati. Un primo esame mostra anche che gli strumenti della tuta sono di tipo sconosciuto e mostrano scritte in un alfabeto ignoto.

Lo scheletro, soprannominato Charlie, è apparentemente di un essere umano ma risale a circa 50.000 anni fa. Il mondo scientifico riceve un’ulteriore sorpresa poco tempo dopo con un’altra scoperta sensazionale. Gli scienziati Victor Hunt e Christian Danchekker dirigono le ricerche ma si trovano di fronte a dati che sembrano contraddirsi.

James P. Hogan era rimasto insoddisfatto del finale del film “2001: Odissea nello spazio” ma era rimasto intrigato da alcune idee della storia. Lavorava come ingegnere e secondo ciò che raccontò successivamente scommise con i suoi colleghi che sarebbe riuscito a pubblicare un romanzo di fantascienza.

Il risultato è “Lo scheletro impossibile”, fortemente basato su temi della  fantascienza archeologica. James P. Hogan costruisce un remoto passato in cui nel sistema solare c’erano esseri umani che viaggiavano nello spazio e da lì la storia diventa sempre più complessa tra analisi e scoperte.

Il romanzo è ambientato in un futuro che ormai è molto vicino in cui c’è un avamposto stabile sulla Luna. Il ritrovamento di uno scheletro di un essere umano che risulta vecchio di circa 50.000 anni segna l’inizio di una ricerca che cambia completamente le nostre conoscenze della storia dell’umanità.

La storia viene sviluppata seguendo la ricerca scientifica successiva alla scoperta di Charlie, come viene soprannominato l’antico umano ritrovato sulla Luna. È una storia di misteri archeologici e del tentativo degli scienziati che li studiano di scoprire risposte basate su informazioni che sembrano sempre più contraddittorie.

Le ricerche scientifiche riguardano vari rami perché ci sono analisi archeologiche / paleontologiche dello scheletro di Charlie ma la sua tuta spaziale e i suoi strumenti vengono studiati da scienziati di varie discipline. Successive scoperte estendono ulteriormente l’ambito dello studio.

La ricerca si basa sull’esistenza nell’antichità di una razza di umani che vengono chiamati Lunariani. Charlie prova che un tempo c’era una civiltà avanzata ma il suo ritrovamento porta gli scienziati a farsi una serie di domande. Ogni risposta sembra però contraddire il risultato di qualche analisi precedente.

La trama è composta soprattutto dalle discussioni tra gli scienziati che cercano di risolvere il mistero di Charlie. Decisamente non si tratta di un romanzo d’azione ma di speculazione. Per questo motivo, è difficile parlare di ritmo della narrazione perciò l’attenzione del lettore viene mantenuta dall’intrigo di una ricerca che sembra ribaltare continuamente le teorie degli scienziati.

James P. Hogan cerca di sviluppare la storia seguendo un certo rigore scientifico. Usa le conoscenze degli anni ’70 e alcuni dei concetti usati nel ciclo dei Giganti non sono più validi ma pazienza, succede che gli elementi scientifici di una storia di fantascienza diventino obsoleti. Allo stesso modo, chiudiamo un occhio sul fatto che nel ciclo dei Giganti l’URSS esiste ancora nel XXI secolo.

Piuttosto sono rimasto perplesso dal fatto che di Charlie sia stato trovato solo lo scheletro, il risultato di una normale decomposizione del cadavere. Considerando il fatto che è morto sulla Luna in una tuta spaziale mi sarebbe sembrato più logico che il suo corpo non si decomponesse ma si mummificasse. Se si tratta di un errore non è comunque grave ai fini della trama.

Il mistero di Charlie e tutto ciò che ne deriva è l’assoluto protagonista de “Lo scheletro impossibile”. I personaggi sono funzionali alla storia e solo pochissimi hanno un minimo di caratterizzazione. In un romanzo in cui l’elemento intellettuale è così fondamentale, secondo me si tratta di un difetto relativo.

Nel corso degli anni, “Lo scheletro impossibile” è diventato uno dei grandi classici della fantascienza archeologica. Secondo me è giusto perché si tratta di una storia che mescola in modo molto intrigante dati scientifici a speculazioni fantascientifiche. Per questi motivi, credo che non possa mancare nella collezione di chiunque sia interessato a questo tipo di storie.

2 Comments



  1. Gli eredi di Marte (2010) A Jean M. Auel

    Oggi voglio essere proprio prosaico: ne narrerò una per suscitar sonno. Molto dopo che asteroide in collisione col nostro pianeta frantumasse tutto un continente di terre emerse chiamato Gondwana e abitato da dinosauri, grandi rettili i cui ossi vennero poi scambiati per quelli di giganti, Marte andava desertificandosi. La sua catastrofe ecologica era tale che Iddio volle salvarne uno di quella specie: Uwa, bimbetta il cui nome è l’onomatopea del vagito. A bordo di un cesto dal guscio duro, capsula di salvataggio, la vergine madre sfidò l’algido spazio stellare da sola e soletta, poiché Hinun-ndendée, il grande uccello, era andato in avaria. Catturata dalle correnti gravitazionali terrestri, essa cadde in un lago chiamato Tanganica, nei pressi di due montagne d’Africa: l’una bianca, il Kilimangiaro, l’altra nera per i guerrieri Masai. Trovata da Dorso Grigio nella nebbia, in principio Uwa fu allevata secondo gli usi e i costumi di australopiteco, essere scimmiesco – goffo, in verità – che non utilizzava ciottoli come fossero utensìli, che non conosceva ancora le nostre fatiche, né il significato della parola morte, avendo questo coscienza limitata di sé. A quei tempi la vegetazione era più lussureggiante di adesso; unica insidia era Fungua, la puzzolente gorgone dai denti a sciabola, fiera che sbucava all’improvviso dal folto, colpiva e nei recessi dell’oscurità tornava. Un giorno il vecchio banano Naamasa, che sembrava tanto secco, rifiorì e Uwa, che era nell’età del primo menarca, ebbe una visione mistica: “Io sono l’uno che diventa il due, che diventa il quattro, che diventa l’otto e che torna a essere l’uno”, le disse un nibbio appollaiato tra i rami di un sicomoro. Era il tramonto, ma fu già l’inizio di un’altra era. D’istinto, colei che avrebbe di lì a poco generato un maschietto senza conoscere uomo, di sette in sette cominciò a contare le noci di cui era ghiotta e a dar un nome a ogni dito di mani e piedi, ivi compreso lo strano concetto dello zero, rappresentato dal pugno della vuota mano. Cammina cammina, al campo tutte le notarono il ventre e le mammelle gonfi. Il nuovo capobranco ne rimase sconcertato: che un abile, impertinente dei suoi figli l’avesse posseduta, ma come mai essa emanava il suo stesso odore di maschio dominante? Che fosse stato, allora, lui a ingravidarla col suo sguardo! Era da un po’ che la puntava, schiacciando le noci… La prese sotto le sue ali protettive, trotterellando via. Ed essa partorì Tep-ii-tesher-am-akh, colui che è il Capo-che esce-rosso-dalla-immagine, un marziano che non seppe mai di essere tale. Regina madre come un’ape, Uwa lo generò e nei suoi mitocondri vi era la formula dell’immortalità. Inoltre possedeva un gran numero di ribosomi a livello cellulare e il tocco delle sue mani era considerato terapeutico, a causa del fluido sottile, energetico, che esse sprigionavano. Come l’uro di raffigurazioni preistoriche parietali successive, questo ercolino, eretto Adamo possedeva una costola mobile in più delle figlie di Eva e non fu lui ad accoppiarsi coi Neanderthal di Lilith, ovvero colei che rapiva nel sonno i bambini cattivi per sintetizzarne, da adulti, i caratteri del Sapiens. Per un’aberrazione cromatica il suo occhio percepiva solo i colori primari. E il rosso sangue gli faceva fare dei brutti sogni in un campo totalmente grigio. Ma il suo spirito si elevò subito al cielo blu e al sole giallo oro d’una gloria, i suoi discendenti furono attratti subito dal fuoco, si dipingevano di ocra il corpo nudo. E venne il tempo di abbandonare la foresta pluviale e di cacciare nella savana, regno di predatori e di carogne in cui egli seguiva il bufalo dalla coda bianca, ricca fonte di sostentamento, nei loro spostamenti. Una notte, poi, al chiaro di luna, egli sentì un insolito richiamo: sì, un dolce profumo, e, appartatosi, si unì con Ndok, il cui nome significa Acqua Viva. Per uno strano caso del destino gli generò figli, dei figli sani e forti, come Okin, l’Airone; come Mongo, il signore del Popolo delle Teste Rotonde; come Zamani, il capo del clan di Erin. Ed Erin un mastodonte dalle zanne diritte, non così ricurve come quelle del mammùt. E Zamani diede nome di Grande Orecchio di Erin al Bacino del Congo, perché i suoi fiumi ne assumevano la forma tracciatili sulla sabbia. Egli viaggiò molto in cerca di avventura e di se stesso. I figli di Zamani: Dùrù, colui che vide l’ippopotamo nel Lago Ciad, che allora si estendeva fino al Sahara; Kil, il piccolo grande cacciatore di rinoceronti; But, colui che dormiva su una larga pietra piatta; Ze, quello che portava sempre con sé un dente di leopardo; Abo, lo zoppo che scovò bertucce alle cosiddette Colonne d’Ercole. Le figlie di costui: Bololanege, colei che spinse i suoi anelli alle caviglie fino in Spagna; Anyeghe, l’amore di tutti gli uomini sotto i palmizi. Costei ebbe molti figli, tra cui Afan, che in Enotria ebbe due gemelle che migrarono nei Balcani: Kowa e Mukashi. E altri furono i suoi discendenti di cui si è persa memoria e spintisi oltre l’Ucraina. Giunto il clan in Cina, Riitho, detto l’ Avvoltoio, si unì con Kini, con colei che seppe pretendere, farsi rispettare, che uccise Mama Baru, una grossa iena, in una località chiamata, nel linguaggio dei gesti, Tie-saba, perché le ci vollero ben tre giorni per farlo, e lo fece da sola. Alla fiamma del fuoco en-Kima essa era solita indurire lo strano corno del naso di Mbawala, un’antilope, e con esso arrostiva le dolcigne carni di animali che si catturavano col boomerang presso alture di un gruppo di gigantotechi, ovvero degli yeti. E accaddero degli straordinari terremoti e paurosi smottamenti: l’India, che fino ad allora si chiamava l’Isola di Mounji, ovvero la Madre Terra Mu, si unì al continente asiatico, ne innalzò la cresta montuosa fino all’Europa di Sikar, il re delle conchiglie. E lungo la cosiddetta Via della Seta essi incisero sulle rocce degli strani omini stilizzati chiamati Mwana, e in un luogo oggi desertico esiste ancora un tipo di scrittura simile: ad esempio, quello che per voi potrà apparire quasi l’enigma della sfinge. Quattro disegni elementari in sequenza: 1) una capanna rotonda o caverna, al cui interno sta un omino filiforme in piedi; 2) una seconda figura con una casetta di rami al cui interno quell’omino ci sta sdraiato, come se dormisse; 3) una terza in cui l’omino stilizzato ne sta a testa in giù; 4) un’ultima in cui ne cammina al di fuori, tutto contento per la stagione. E il significato di tutto ciò è il seguente: giunta l’ora del parto, con cautela nelle mani, ci si dovrebbe assicurare che la testa del cucciolo della gestante sia in corretta posizione d’uscita, altrimenti potrebbe soffocarsi col cordone ombelicale e tanto da sembrar come provenuto da… l’Aldilà! Questa la filosofia di tutta una vita, di un’arte di metterci al mondo. E tra le figlie di Uwa vi furono anche altre vergini madre che misero alla luce uomini famosi. Ed esse contavano il numero di essi coi nodi delle treccine dei capelli ondulati, poiché fu di Atak, colei che indicò la Grande Strada, la profezia che il decimillesimo di essi sarebbe diventato messia, un Gran Khan che avrebbe dominato con vera giustizia e sconfitto per sempre i cannibali dal biforcuto piede di struzzo, la cui regina si chiamava Saba. E alcune vergini di esse erano solite riunirsi per festeggiar solstizi presso un campo di grano selvatico, tutto di misteriosi segni geometrici: per uno strano fenomeno elettromagnetico, cadendovi fulmine, si era generato vortice di particelle di silicio che ne aveva piegato, e talora intrecciato, le pianticelle spontanee. E dall’adusto punto d’impatto della saetta col terreno non coltivato sfera incandescente si era librata: come un aquilone o un disco volante, essa sfrecciò via col vento, risucchiata dall’alto. Esse ne ritenevano sacro il suolo e che il Cielo avesse voluto comunicar loro i Suoi disegni, disegni tanto affascinanti quanto quelli di Nazca, in Perù, dove il famoso ragno simboleggia Orione. Nel tempo fiumi cambiarono corso, monti si livellarono; un dì un gran cuoricino: “O spiriti eletti, ascoltate: non si muore che una volta sola, ma nello spirito quante di volte! Più non lucidiamo, fratelli, una pietra che sia simbolo tagliente di perfezione, bensì costruiamo, pietra dopo pietra, fatica dopo fatica interiore, un regno di belle speranze per l’umanità”. Il Dieg-mil aveva parlato ed essi vissero in armonia d’intenti lungo le coste del grande mare interno che, Oh! molto prima di Genghiz Khan, si estendeva dal Mar Nero di un’Atlantide al Mar Caspio pescoso e da questo al Lago Aral.

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